Cultura

L’arte contemporanea è ancora arte?Perché facciamo tanta fatica a capirla?

Quante volte davanti a un’opera d’arte contemporanea ci siamo fermati a chiederci che significato abbia? O abbiamo girato lo sguardo un po’ disgustati, sentendoci presi in giro?

di Sara De Carli

Dopo che li beccarono a Trieste, cinque giorni insieme nello stesso hotel, Victoria Cabello ha ammesso: «Contavo sul fatto che non riconoscessero Maurizio. È una star che non fa gola al mondo televisivo». Poi ha fatto il dopofestival di Sanremo, Maurizio era lì con lei, e ancora una volta non se ne è accorto nessuno. Quest?anno è approdata al Festival ufficiale, qualcuno ha insinuato che ci fosse lo zampino del fidanzato e lei: «Ma se ieri uno della Rai mi ha chiesto se Cattelan era italiano…». Eppure Maurizio Cattelan insieme a Matthew Barney e Damien Hirst forma la santa trinità dell?arte contemporanea. Non c?è critico d?arte che non li citi, per osannarli o per dirne peste e corna. E poi ci siamo noi, i comuni mortali, che tra – rispettivamente – bambini impiccati, saghe epiche del muscolo testicolare (in arte Cremaster) e pecore in formaldeide ci sentiamo come minimo interdetti. Un luogo comune, forse. Non fosse che viene il dubbio che queste opere abbiano la pretesa di dire qualcosa della nostra epoca, e quindi di noi. Lo fanno? E se sì, il mondo da esse descritto è un mondo che sentiamo nostro? Al di là dell?esercizio accademico o puramente speculativo, qui si tratta di capire che rapporto ha l?arte con il mondo e con noi. E va bene che l?arte non ha un compito pedagogico, sono secoli che ha rifiutato l?onere, ma l?arte ha o non ha una dimensione sociale? Perché altrimenti fare un?opera – per restare a Now di Cattelan – che è «riflessione sul problema irrisolto del potere e dell?utopia», il «requiem di un sogno», che «mette in scena l?epilogo di un momento della democrazia» e propone di vivere il lutto della «perdita di un idealismo»? Perché cercare una dimensione politica e sociale, perché lanciare il sasso – è sempre Cattelan – dicendo «non farei mai un?opera su Berlusconi, è una persona come tante, che non lascerà tracce nella storia. A me interessano i grandi temi, i grandi personaggi, le questioni universali» per poi ritirare la mano con un «ma io sono un artista, non ho altro da dire. Io non so perché faccio una cosa piuttosto che un?altra»? Gli stessi esperti sull?argomento sono divisi. C?è chi sogna un ritorno alla figurazione pura, alla libertà, al sogno e chi sostiene il diritto-dovere dell?arte di impegnarsi nella società. Ne abbiamo parlato con Jean-Luc Nancy, filosofo francese, che ha ragionato sulla corporeità, l?estetica e la politica. Per scoprire che l?arte contemporanea lo urta. Non perché non la capisca, ma perché la capisce troppo. Vita: Che tipo di arte è l?arte contemporanea? Come la riassumerebbe? Jan-Luc Nancy: Innanzitutto io parlerei dell?arte di oggi, non di arte contemporanea: ?arte contemporanea? è un sintagma dalle frontiere mobili, che non si rifà a categorie estetiche particolari come è per il Cubismo o per la Body art. In funzione di queste categorie si può dire che alcune opere d?arte pur essendo prodotte oggi non appartengono all?arte contemporanea, ad esempio se uno scultore realizza statue classiche, perché mancano alcuni sintomi che caratterizzano l?arte contemporanea. Come è possibile? L?arte è sempre stata contemporanea, è sempre stata l?arte del suo tempo, gli artisti sono sempre stati contemporanei ai loro – appunto – contemporanei. Un artista può non essere contemporaneo? Sì, ma solo uscendo dall?arte. Se un artista oggi segue i canoni di Renoir – è un esempio – quell?artista non è un artista contemporaneo, ma non è nemmeno contemporaneo di Renoir, semplicemente non è contemporaneo di nessuno. Vita: Che cos?è l?arte? Nancy: L?arte è sempre produzione di una forma nello spazio dell?oggi, la ?messa in forma? del mondo presente: dare al mondo una certa possibilità di senso e di significato. Questo è Heidegger: il mondo non è la totalità dei significanti, ma la totalità delle possibilità di significare qualcosa. Gli artisti quindi danno forma a una possibilità di significazione. Non si tratta di una attribuzione di significato, l?artista non dice ?il significato del mondo è questo e quest?altro?: quello lo fa la filosofia. L?arte dà un?apertura, produce una circolazione di significati, non è qualcosa che rende immobili i significati in un significato concluso e conclusivo. Non era così nemmeno quando l?arte era attraversata dalla religione: è evidente che l?arte cristiana è altro dal cristianesimo. Pensi alla Pietà Rondanini di Michelangelo: non dice nulla di ciò che è scritto nel Vangelo circa la deposizione del Crocifisso, invece innalza una forma all?interno della quale entrano in gioco infinite possibilità di significare il dolore e la sofferenza umana. L?arte è questo: innalzamento di una forma che apre una possibilità di mondo. Vita: Vale anche oggi, in un tempo in cui il mondo è così complesso? Nancy: Mi piace il fatto che in francese la parola ?globalizzazione? non esiste, si parla invece di ?mondializzazione?: significa che noi oggi dobbiamo inventare una forma di mondo, una forma che faccia circolare le possibilità di significato, di cui nessuno però possa appropriarsi per trasformarli in significati. L?arte ha il compito di aprire il mondo a se stesso, alle sue infinite possibilità. Aprire possibilità senza chiuderne nessuna. Infatti l?artista apre lo spirito delle persone a nuove possibilità di forma, a nuovi mondi che prima ignoravamo. Come diceva Proust, ogni scrittore modella il suo pubblico, che prima non esisteva. Nessuno era in grado di capire Caravaggio prima di Caravaggio. Vita: Perché allora molti di noi non capiscono l?arte contemporanea? E soprattutto, questo non è un fallimento dell?arte stessa? Nancy: È vero, per molti l?arte contemporanea non è arte e non lo è perché non apre nessun mondo, nessuna possibilità di significabilità. L?arte contemporanea apre solo una domanda, un interrogativo: nella forma dell?arte contemporanea circola solo un interrogativo, preoccupato e angosciato. La sua è una forma di mondo fragile e inquietante. Il nostro è un mondo che si percepisce come un mondo che ha perso significato, che vive l?assenza di grandi idee regolatrici, siano esse politiche o estetiche. Di conseguenza sono scomparse le figure come supporto di possibilità per creare forme. Gli artisti contemporanei danno conto di questa mancanza, ed è il motivo per cui non si definiscono quasi mai artisti, ma ?testimoni?. Non è la prima volta che succede, è lo stesso problema che aveva Duchamp quando prese un orinatoio prodotto in fabbrica e lo espose col titolo di Fontana. Per Duchamp l?arte è un appuntamento senza appuntamento, un incontro casuale fra un uomo e una cosa che a un certo punto l?uomo elegge come forma. Ed è lì che l?uomo diventa artista, a posteriori. Guernica è l?ultimo esempio di pittura storica, dopo Guernica ogni schematismo possibile scompare. Vita: Professore, sta smontando forse l?impegno civile dell?arte? Nancy: Un po?? La maggior parte della gente – me compreso – è urtata dalle opere d?arte contemporanea: non è che non le capisco, è che le capisco troppo. Quando guardiamo un?opera d?arte contemporanea ci sentiamo riversati addosso troppe significazioni, e di fronte a questo sovraccarico di significazioni proviamo fastidio. Penso all?opera di Sylvie Blonchet sugli stupri in Bosnia, così immediatamente e intenzionalmente politica? Ma una cosa è che l?artista sia politicamente impegnato, altra è la sua opera. L?opera d?arte non è politica, Guernica non è un?opera comunista, Picasso sì. L?arte è significazione pura. Per questo non sono d?accordo con l?arte politica e con l?arte di testimonianza. Vita: Quale resta l?obiettivo dell?arte se essa non è più in grado di presentare delle possibilità di mondo? Nancy: Restano almeno due cose: il gesto dell?artista e un segno alla fine del gesto, un segno che non ha significato. Cominciamo dal gesto. Il gesto è un movimento che accompagna un?intenzione e una significazione, ma che è estraneo all?intenzione. L?arte è innanzitutto questo gesto, il minimo e allo stesso tempo l?essenziale dell?arte. Penso a Claudio Parmiggiani, al suo labirinto di vetro, a lui che entra nel labirinto con una mazza e lo distrugge. Alla fine del gesto dell?artista non c?è il vuoto, ma un segno. Un segno che segnala qualcosa, un segno di riconoscimento, di rimando, che tende verso l?oltre. L?opera d?arte non è mai fine a se stessa. Non esiste l?arte for art?s shake, così come – all?estremo opposto – non esiste l?arte per la religione, o l?arte per la politica. Un?opera d?arte è arte nel suo rimandare ad altro. Avere una finalità è proprio dell?opus oggetto della tecnica, l?opera d?arte non serve a nulla, è un segnale. Vita: Chiunque può rompere vetrine, e non credo che tutti siano artisti? Nancy: Quello è un gesto politico, può darsi che dovremmo farlo tutti, ma questo discorso non ha niente a che fare con l?arte. Perché anche se gli artisti oggi rifiutano quell?etichetta e si dicono testimoni, non è vero che basta mettere strumenti e materiali in mano a chiunque perché ne venga fuori un?opera d?arte. È come se ci fossero una moltitudine di possibilità di mondo, che però devono passare attraverso un punto singolo. L?artista è questo punto singolo. Vita: Dopo tutto questo discorso immagino che – a maggior ragione – ritenga che sia da buttare l?idea dell?arte come occasione di conoscenza… Nancy: Meno di quanto creda. In questo l?arte è molto vicina alla filosofia. La filosofia nasce dalla meraviglia, diceva Aristotele, ma in realtà continua anche con la meraviglia e lo stupore. Quando lo stupore cessa, la filosofia si trasforma in conoscenza, mimesis. Allo stesso modo l?arte è più riconoscimento che conoscenza: un ri-conoscimento però che non ci riporta al già noto, ma che ci porta a qualcosa d?altro, che non conosciamo in senso tecnico ma che pure intuiamo e in qualche modo intravediamo, che sentiamo famigliare. È paradossale, certo, ma l?arte è riconoscimento dell?ignoto e dell?inconoscibile, tratta l?apparire del non apparente. Come diceva Adorno, «qualsiasi musica è uno sforzo per pronunciare il nome impronunciabile di Dio».


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